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Monte Cuccio è una montagna di forma conica posta alle spalle della piana su cui sorge la città di Palermo. Raggiunge un'altezza di 1050 metri sul livello del mare ed è ben visibile da tutta la città.

La scalata di Monte Cuccio

 

Domenica notte, buio pesto. Volevo rimanere ancora a dormire tra le pesanti coperte nere; niente, venivo bruscamente tirato giù dal letto, nonostante strepiti, pianti e proteste.

Nel silenzio si compiva il rito della vestizione e dovevo mettere ai piedi due paia di calze di lana e i pesanti scarponi unti di grasso, puzzolente. Zaino di tela militare verde grigio insaccato di maglioni e misteriosi cartocci, borraccia col tappo di metallo colla catenella e frignando, avrò avuto sei o sette anni, trottavo malvolentieri dietro i genitori frettolosi. Strade deserte, cielo stellato e muso incavolato, a piedi raggiungevamo la stazione del pullman per San Martino , nella piazzetta dietro il teatro Massimo. Si aspettava; il mezzo pubblico, uno scassume blu, arrivava dopo di noi. Mio padre fumava la sua serraglio, una sigaretta piatta senza filtro.

L’autista si chiamava Dante e lo conoscevamo bene. Salivamo e partivamo: unici occupanti delle lunghe file di posti. Era la prima corsa.

Ore quattro. Mio padre voleva arrivare presto, il primo. Un’ora di viaggio, Boccadifalco , Monreale e finalmente San Martino. Nebbia, freddo. Neanche il negozietto dove compravamo pane e mortadella era aperto. Un’altra sospensione, seduti sulle panche di cemento, ghiacciate.

Finalmente arrivava una donnina incappottata che apriva la piccola porta e ci faceva entrare nel negozio buio. Accendeva una lampada dalla luce fioca e dietro al bancone affettava mortadella e pane. Prima colazione, mordevo con rabbia e fame quel pane raffermo e lentamente mi riconciliavo col mondo infame.

Il cielo si schiariva tra le nuvole dense e spuntava qualcuno sulla piazza del paese.

All’abbeveratoio delle mucche, dietro il negozio, un getto d’acqua ghiacciata spegneva la mia sete e andavo di nuovo a sedermi, pensando alle fatiche che mi avrebbero raggiunto durante la giornata. Arrivava il momento, al comando di mio padre, di percorrere la breve salita fino alla villetta dello zio Ninno Meli. Scalini alti , abbaiare dei cani e ancora attesa, nel giardino con la vasca di cemento piena d’acqua verdastra. Quella domenica dovevamo scalare monte Cuccio, altezza 1600 metri.

Zio Ninno scendeva per primo, seguito dai tre figli, Ferdinando , il primogenito, Elisabetta e Maria Teresa. Zia Carlotta ci salutava dalla finestra coi gerani rossi. Doveva sbrigare in casa e in pollaio.

Zio Ninno aveva portato con sé quella contadina bergamasca fino a Palermo. Avevano messo su famiglia, senza sposarsi, e i Meli, di nobili e abateschi antenati, non avevano accettato quella bella signora dagli occhi azzurri e lo guance rosate, neanche quando erano nati i figli, tutti con gli occhi azzurri e le gote rosse e la carnagione chiara. Gente del nord, da non fidarsi. Zio Ninno era un omone, alto e immenso, con la voce tonante e fumava la pipa. Ne aveva una gran collezione sulla mensola dello sparecchiatavola, nella stanza da pranzo. Prima della guerra, era stato compagno di avventure di mio padre ed erano grandi amici. Forse neanche mio padre amava la chiesa, con orrore di mia madre, beghina già a quei tempi. La piccola comitiva si avviava verso l’alto a passo lento. Le stradine presto si trasformavano in sentieri fino alla prima sosta dopo un’ ora di cammino. L’acqua sgorgava direttamente da una roccia liscia senza neanche una cannella, che spuntò dopo pochi anni. Riempivamo le borracce, ognuno la sua; si doveva bere solo la provvista personale, pochissime gocce per volta. La salita faticosa sarebbe durata quattro ore, gambe indolenzite , una sosta ogni ora, di cinque minuti, una sorsata e ricominciare in fila indiana. Ero sempre l’ultimo, tra le risata di tutti, specialmente di mio padre che era sempre il primo.

Quella volta ottenni di stare sulle sue spalle per qualche minuto, quando a metà del tragitto mi ero buttato seduto sulle rocce e non volevo più muovermi. Ora avevamo iniziato il sentiero di pendenza lieve, a zig zag, la pineta era sparita da tempo, intorno pietrisco e nient’altro, il sole picchiava forte. Neanche un filo d’erba, neanche un fiore. I piedi bollivano per il calore accumulato e per la stanchezza, ma bisognava andare avanti. Silenzio, il fiato serviva per faticare la lenta risalita del fianco della montagna. “Respira, respira” diceva mio padre. Io pensavo: ma questo è proprio matto e cosa sto facendo, sto respirando o no?

Elisabetta e Maria Teresa ogni tanto mi rivolgevano la parola per consolare questo ragazzino recalcitrante obbligato a una tortura ripetuta. Sognavo di arrivare e togliermi gli scarponi per far riposare i piedi doloranti. Finalmente si arrivava in cima e non avevo occhi per il panorama, sicuramente meraviglioso.

Avevo solo fame e nella sosta svitavo il coperchio del recipiente d’alluminio e m’ingozzavo degli ‘ammataffati’ e orribili anelletti col ragù preparati al mattino da mia madre, con rabbia.

Misteriosi sorrisi, per me incomprensibili. Durava poco, la sosta per il cibo. Una bevuta dalla borraccia era un’altra sofferenza: l’acqua aveva preso amaro sapore d’alluminio, come gli anelletti. La discesa, per fortuna, avveniva in un tempo minore, un paio d’ore. Di nuovo la casa di zio Ninno, accogliente e serena. La cena tutti insieme nella grande sala da pranzo, polenta e salsicce al sugo. Ferdinando si spalmava sul naso rossiccio, screpolato dal sole, una pomata, le ragazze parlottavano nella loro stanza, io leggevo un “Topolino”. I saluti, le chiacchiere, il pullman e a casa a dormire, triste e stanco. Un’altra domenica, passata senza gioia. La mattina dopo, mi attendeva un altro risveglio immusonito e la scuola. Senza riposo, senza sosta. Senza significato.

Anni dopo, Ferdinando, lo scalatore di montagne, cominciò ad amare il mare e nei suoi giorni di riposo dal lavoro d’avvocato, faceva immersioni da sub. Aveva tradito la montagna? Non lo so. La moglie sulla barca lo attese a lungo, quella volta. Se l’era preso il mare.

Lo trovarono, incastrato con la bombola dell’ossigeno, in una stretta fenditura tra le rocce. Aveva forse inseguito una grande cernia luccicante o l’ossigeno lo aveva addormentato. Chissà. Zio Ninno non volle mai accettare che quel suo figlio maschio, dal corpo muscoloso, fosse sparito nel mondo della morte. Zia Carlotta, che ci raccontava della silenziosa disperazione del marito, precipitato nell’abisso dei sensi di colpa, lo sentiva ancora vivo anche lei. Al mattino presto, udiva i passi di Ferdinando per le scale ed il suo preparare il pastone per i polli. Ogni mattina. Io ricordo solo che Ferdinando sapeva tutto sulle costellazioni e mi raccontava dell’orsa maggiore e di Orione e della stella più brillante che sorge per prima nel cielo notturno e non è una stella ma il pianeta Venere. Aveva gli occhi azzurri, Ferdinando, ed era un bravo ragazzo.


© Giuseppe Davì

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